- I superflui manca dagli scaffali dal 1994, anche se probabilmente molti tra voi avranno il piacere di trovarlo tra i libri dei genitori, se non tra quelli dei nonni, vista l'enorme diffusione che ebbe ai tempi della prima edizione. Opera prima di Dante Arfelli, scritta a 28 anni e uscita nel 1949, capace di vendere centomila copie in Italia e addirittura ottocentomila negli Stati Uniti, oltre a vincere nello stesso anno il Premio Venezia (antenato dell'attuale Campiello) nella sezione inediti.
Un successo che Arfelli purtroppo non seppe più replicare: nel 1951 uscì La quinta generazione, romanzo dopo il quale l'autore romagnolo perde per molti anni la capacità di raccontare storie, di mettere in fila pensieri, frasi e capitoli. Chiama questo male oscuro che lo sottrae alla scrittura e che gli impedisce di trovare quegli spunti di cui vivere1 «la mia nevrosi, le mie fobie». La malattia gli tolse le parole, quella voglia di osservare il rumore della vita. «Parlava per frasi spezzate», dice la figlia Fiorangela. «Parlava per sguardi, cominciava ad avere paura delle parole»2. Per molto, troppo tempo, Arfelli rimase in silenzio. Prima di quel buco temporale, come già detto, in pochissimo tempo seppe comporre un libro che letto oggi appare ancora carico di una forza incredibile, di un'attualità purtroppo ancora vicina alla nostra quotidianità.
«Lo scrissi in dieci giomi, ma era già tutto dentro. Vinsi il premio Venezia e mi diedero mezzo milione. Poi fu pubblicato e piacque moltissimo in America perché là capirono che rispecchiava l'Italia del dopoguerra. Lo avevo intitolato diversamente, La sera, ma passato davanti alla caserma dei carabinieri mi venne quel titolo più sintetico. I superflui sono, per me, una categoria morale, come gli indifferenti e gli egoisti, e così...». Guai a ricordargli che la critica letteraria lo apparentò ai neorealisti. «Lasciamo proprio stare. Si sbagliavano. Il neorealismo è stata un'imitazione degli americani. Dei disse, disse sempre disse. Anch'io ho dei disse, ma cerco di limitarmi»3.
Quello che Arfelli aveva da dire, lo raccontò attraverso la storia di Luca, ragazzo di campagna, che giunge a Roma in cerca di lavoro e fortuna. Come al solito, il destino si mette di traverso e appena sceso dal treno viene avvicinato da una prostituta, Lidia, che lo porta nella propria misera stanzetta, in affitto presso quella che lungo tutto l'arco del racconto viene sempre chiamata «la vecchia», vedova di ferroviere morto in servizio. I capitoli si susseguono, raccontandoci le "superflue" vite dei protagonisti. I superflui è un'opera, come la definì la giuria del premio Venezia, «amara, cruda, aspra, anche disperata se dal fondo della sua chiusa tristezza non si levasse una trepida luce di umana simpatia»4.
Spesso vittime delle classificazioni, delle categorie e delle etichette, facciamo nostre le parole di Arfelli, allontanandoci dalla narrativa del dopoguerra, allorché imperversava la retorica fotografica delle macerie. Il romanzo di Arfelli non è né sociologico né documentaristico, ma una metafora sconsolata dello spaesamento della gioventù dopo ogni disastro della ragione. Il giovane protagonista deambula alla ricerca di un posto fisso, ottenendo rifiuti e rinvii. La sua disperazione economica è parente stretta della sua disperazione esistenziale. La sua povertà materiale è congiunta con la sua povertà di motivazioni ideali e con l'inaridirsi dei sentimenti di solidarietà. Quello che conta, ovviamente, è la prosa. Una prosa che si potrebbe definire classica e grammaticale, ma con un ritmo interno così inesorabile e compatto che frantuma ogni stile conciliativo e si offre nella sua tragica e definitiva condanna dell'egoismo umano.5.
In occasione della ristampa de I superflui, avvenuta nel 1994 da parte di Marsilio, Paolo Crepet ne intervistò l'autore sulle pagine de «l'Unità». Facciamo nostra una domanda, troppo ghiotta per essere dimenticata: "Chi erano i superflui?". Arfelli non ci gira intorno, poche parole bastano a inquadrarli: «Erano quelli che si sentivano in più, quelli abbandonati dalla società»6. Altro che neorealismo, i personaggi pur venendo da storie di vita vissute avevano oltrepassato i limiti del contesto temporale, del dopoguerra, della Repubblica di Salò e del vuoto di valori con cui avevano avuto a che fare. Luca, Lidia e "la vecchia" camminano, pagina dopo pagina, verso il loro tragico destino, ci raccontano di vite desolate, di esistenze "trascurabili", appunto "superflue". Via via che ci si avvicina al finale, all'ineluttabile parola fine, la tristezza aumenta. I tentativi di emancipazione, da parte dei protagonisti, non mancano ma la pellicola con impresso il loro destino scorre fotogramma dopo fotogramma, già scritta e solo da vivere da sinistra verso destra, senza altre variabili possibili. Non serviranno, a far salire di grado Luca, le lettere di raccomandazione del parroco o del segretario del Partito Socialista del suo paesello, le amicizie più strane e insolite. Come a Lidia, alle prese con il desiderio di emigrare in Argentina, non basterà trovare chi la mantenga per smettere di fare la prostituta, per raccattare finalmente i soldi per allontanarsi da una triste esistenza. Un destino di fallimento morale, civile e sociale viene messo in scena, tra le pagine de I superflui.
Dante Arfelli seppe trovare la forza per tornare a scrivere prima della propria morte, avvenuta nel 1995. Con il Parkinson che gli muove le mani, scrive nel 1988 Ahimè, povero me, uscito poi per Marsilio nel 1993 e che rappresenta una sorta di diario in cui racconta questo suo ritorno alla narrazione, questo suo desiderio di essere meno "superfluo" e più vivo.
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