Quest'opera è in forma di prosimetro, ovvero contiene sia riflessioni in prosa che haiku, una forma poetica della letteratura giapponese, di sole 17 sillabe sullo schema 5-7-5, che agli inizi del novecento ha trovato imitatori nella poesia europea, specialmente in quella francese e in quella ermetica italiana (per es. in Ungaretti).
«Dentro cento ossa e nove orifizi esiste un essere chiamato Furabō, monaco simile ad una vela al vento. È davvero delicato, come un velo di seta che il vento potrebbe lacerare.» |
Nell'ottobre del 1687 Bashō intraprende un viaggio di sei mesi raccontato in Oi no kobumi, pubblicato postumo nel 1709 dal suo discepolo Kawai Otokuni. Il poeta, che si definisce “una foglia in balia del vento”, considera la poesia “un seguire la natura, una dimestichezza con le stagioni”. Amici e discepoli salutano Bashō offrendogli delle poesie, delle vesti, un copricapo, monete garbatamente avvolte nella carta per l'acquisto di sandali, e brindano alla sua salute, pregando per la sua incolumità accompagnandolo su delle barche per un tratto del fiume. Dopo aver sostato in un piccolo paese della provincia di Mikawa, dove si è rifugiato il giovane discepolo Tokoku, Bashō torna a Iga Ueno, la sua città natale. Lacrime di commozione sgorgano alla vista del suo cordone ombelicale, conservato dalla madre da poco dipartita. Alla vigilia di capodanno scaccia i ricordi del passato bevendo sakè e si addormenta senza aver contemplato, come consuetudine, il sorgere dell'alba. In primavera decide di riprendere il viaggio e incontra un fanciullo desideroso di accompagnarlo sui monti Yoshino, rinomati per la fioritura dei ciliegi. Il fanciullo dice di chiamarsi Mangikumaru ("Fanciullo dei diecimila crisantemi"), ama la poesia e compone versi, è quindi il compagno ideale per Bashō, che si accinge a scrivere sul copricapo del ragazzo:
Senza dimorain cielo e in terra, in viaggio noi due soli.
I due visitano gli isolati monasteri sul monte Kōya, indugiano in silenzio a osservare i raggi della luna che danno un onirico pallore ai fiori di ciliegio, si entusiasmano davanti alla baia di Waka, consapevoli della perfezione divina del Creato. Il poeta si sente liberato da ogni ansia: gusta i cibi più semplici, non teme di venire derubato poiché non possiede niente, ignora la fretta perché è libero da ogni impegno mondano, procede a piedi come un monaco errante, gode dell'incontro con casuali passanti che, se dotati di una qualche sensibilità d'animo, gli sembrano "come pepite d'oro in uno stagno". Dopo aver sostato per tre giorni a Nara ed avere visitato gli antichi templi shintoisti del luogo, indugia tra i campi di papaveri della spiaggia di Suma a osservare i pescatori scoccare frecce ai corvi che cercano di rubare il pesce, quindi, inerpicandosi su un picco, evoca drammatiche e mitiche vicende svoltesi anticamente in quel solitario paesaggio.
Nell'agosto del 1688 il poeta torna a Edo dopo qualche anno di assenza.
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