- Da tempo Kundera accompagna la sua attività di romanziere con una costante riflessione sul romanzo, che è per lui un’«arte autonoma», da leggere non già nel «piccolo contesto» della storia nazionale, ma nel «grande contesto» della storia sovranazionale – di quella che Goethe chiamava Weltliteratur. Sterne reagisce a Rabelais e ispira Diderot, Fielding si richiama a Cervantes e con Fielding si misura Stendhal, la tradizione di Flaubert prosegue nell’opera di Joyce ed è nella sua riflessione su Joyce che Broch sviluppa una poetica del romanzo: è questa l’idea che Kundera ci offre del romanzo, organismo delicato, prezioso, che vive di un’unica storia dove gli scrittori dialogano in segreto e si illuminano a vicenda.
Ma non è questo il solo aspetto stupefacente di una riflessione lontana anni luce dall’angustia delle storie letterarie, dal narcisistico gergo della «teoria della letteratura» e dalla seriosità inamidata degli «agelasti», coloro che non sanno ridere. Quando parla del romanzo Kundera fa pensare a un pittore che ci accolga nel suo atelier gremito di quadri e ci racconti di sé ma soprattutto degli altri, di coloro che ama e che lo hanno ispirato – vale a dire dei romanzi che agiscono, come una occulta presenza, all’interno della sua opera. E il suo racconto è nitido, di una impressionante trasparenza, e insieme lieve, affascinante. È così, salvaguardando il proprio linguaggio ed evitando scrupolosamente il gergo accademico, che un romanziere come Kundera, capace di strappare il «sipario della preinterpretazione», parla di ciò che più gli sta a cuore: la ragion d’essere del romanzo, «l’ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare la vita umana nel suo insieme».
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